Sono tornata da poco da un viaggio a Parigi.
Qualche ora di treno, immerso nei campi, nei boschi e nelle colline, ed ero già arrivata.
Di Parigi adoro praticamente tutto.
I Gargoyles che dall'alto dei pennacchi, col loro cuore di pietra, scrutano con severità la mia anima.
La Senna, che scorre come un fluido dorato, e sulle cui rive aprono le piccole botteghe di libri antichi.
La vista panoramica dal Sacro Cuore, con i suoi gradini sempre pieni di artisti e bohèmien.
I parigini, questo colorato guazzabuglio di etnie diverse, che non smetterei mai di osservare quando salgo sulla metro.
La metro, sì, che affonda nelle viscere della terra per trasportarmi veloce da un luogo all'altro. Quando salgo sulla metro vengo colta da uno strano torpore, come se fossi nuovamente accolta nel liquido amniotico della grande Parigi, questa mamma gentile e sommessa che mi culla coi suoi dolci scossoni da una fermata all'altra.
Le catacombe di Parigi, piene di ombra, teschi, femori e memorie.
La Cattedrale di Notre Dame. Sono entrata insieme al sole del tramonto, che illuminava le vetrate proiettando virgole colorate nell'aria. Un tenore e un soprano stavano cantando i Vespri. La loro voce si incuneava, limpida e perfetta, dentro ogni volta e arcata.
Indipendentemente dal proprio credo religioso, secondo me entrare a Notre Dame significa accedere alla sacralità di Parigi stessa.
Mi sono poi fermata un pò sulla riva della Senna, accanto a Notre Dame, ho alzato gli occhi al cielo e sono rimasta lì, sospesa nei miei pensieri, a farmi scuotere dal vento freddo della sera che avanzava.
Forse, chissà, una piccola parte di me è ancora lì.
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